L’Oriente e l’Occidente di Bitcoin: una Confutazione

In questa (peraltro molto bella e documentata) lezione presso il Politecnico di Torino tenuta da Rikki, nome “d’arte” di uno dei più noti commentatori in tema di Bitcoin nel rapporto ormai molto stretto con le economie dei paesi in via di sviluppo, si descrivono dinamiche molto precise e documentate, che illustrano certamente, e con eloquenza, un mondo molto diverso dal nostro.

Nel contempo, concentrandosi sulla materia dei cosiddetti “unbanked”, Rikki descrive tesi estremamente condivisibili – sia locali, che sul ruolo certamente “complice” delle economie avanzate – la cui portata incorre però in un grossolano errore quando si tratta di estendere le motivazioni circa l’uso del satoshi nelle NOSTRE economie occidentali.

In sostanza, l’errore sta in questo…

Come effettivamente accade, in Nigeria o in altre economie letteralmente devastate dall’inflazione e dalla corruzione politica, essere “unbanked”, o scontare comunque gli effetti economici di quanto detto, è una condizione comunque vissuta da individui che VORREBBERO essere “banked”, ma per una serie di ragioni contingenti non possono esserlo. Ecco dunque che Bitcoin diventa una salvezza, una necessità, ovvero, in altri termini, una scelta obbligata.

La questione della potenziale censura bancaria nelle economie e nei sistemi occidentali non è assolutamente una buona motivazione, in quanto, al contrario di ciò che accade nelle economie terzomondiste, noi VORREMMO essere “unbanked”, ma non possiamo permetterci il LUSSO di esserlo, ovvero di NON essere “banked”, in quanto la struttura stessa della nostra economia individua una meccanica d’uso di Bitcoin che è solo una: quella del piano d’acquisto costante, ossia di una “messa al riparo” dei nostri risparmi attraverso il cambio in satoshi di quel residuo di flusso periodico di intoiti RIGOROSAMENTE IN MONETA FIAT che chiamiamo stipendio, o reddito, o guadagno.

In altre parole, c’è poco da fare: senza la fiat money, qui da noi non esisterebbe neppure un solo “utente” Bitcoin (o bitcoiner), visto che i satoshi, da noi, possono essere al 99% solo COMPRATI e (al limite) spesi dopo una corposa rivalutazione nel medio-lungo termine.

Detta in altri termini, da noi non esiste un’economia “in” Bitcoin, visto che i Bitcoin li compriamo – e (statistiche alla mano) per un buon 85% – li teniamo assolutamente fermi nei nostri wallet, preferendo come ovvio spendere (gettare, bruciare) la fiat money per le spese correnti e il corrente accantonamento spicciolo per gli esborsi fissi (manutenzioni, mutui, rate varie, bollette, utenze mobili, etc…).

La “protezione” a cui allude Rikki può essere al limite riferita a un fondo in BTC di riserva, ma quel fondo è alimentato comunque da un meccanismo che nove su dieci transita attraverso un conto corrente, o carta di debito-credito: tutti presidi centralizzati che ANCHE VOLENDO NON POSSIAMO NON AVERE A DISPOSIZIONE. E la mano del censore li può colpire senza problemi.

Riassumendo, la nostra economia vive una sorta di sindrome della parzialità. Bitcoin molto difficilmente può essere guadagnato nativamente, in quanto il generico utente (esercente) di tale accettazione da un lato non ha prodotti appetibili che possano scontrarsi col mercati vigente (contrariamente ai mercati terzomondisti, dove anche un cellulare GSM usato può essere un prodotto appetibile), e dall’altro lato non può contare su un target di potenziali acquirenti che siano (1) esperti di Bitcoin, (2) dotati di Bitcoin e (3) disposti a spendere Bitcoin. La pazialità è quella che, di fatto, confina Bitcoin nell’alveo della “riserva di valore”, e in larghissima misura lo esclude da quello del “mezzo di scambio”, necessario per la definizione di una vera e propria moneta.

La sintesi appare dunque semplicissima: da noi essere unbanked è un processo antieconomico, oltre che sostanzialmente impossibile, in quanto non esiste un’economia che renda fattibile e conveniente l’essere pagati in BTC, prima ancora che lo spendere BTC.