Nakamotas e Oltre

Nakamotas è un compendio di articoli tutti incentrai sul tema delle cryptovalute, e nello specifico Bitcoin, che qualche tempo fa ho deciso di utilizzare come contenitore per ragionamenti concreti sull’uso di questi strumenti, sul loro significato operativo e — direi soprattutto — sulla necessità di fare chiarezza attorno a luoghi comuni che secondo me andavano confutati, sfatati, o anche solo precisati a fronte di una disinformazione che ritenevo, e ritengo tutt’ora, dilagante.

Letti in sequenza, gli articoli di Nakamotas mi appaiono ora come lucida riflessione sulla “prospettiva occidentale” nella — chiamiamola — morfologia e topologia d’adozione di Bitcoin. Recenti interventi, e altrettanto recenti mie reazioni in forma di articoli dedicati (come nel caso della mia parziale confutazione di Rikki, che parlava dagli scranni del Politecnico di Torino, e del mio commento a specifica intervista che aveva come protagonista Giacomo Zucco), mi hanno però convinto ad allargare la prospettiva di contesto, includendo anche le speculari “prospettive orientali”, che per loro natura sembrano alludere a un Bitcoin molto, molto più approssimabile a quella funzione monetaria che qui da noi mi sembra estremamente lontana.

Insomma, credo che i discorsi di Nakamotas rimangano estremamente utili, nonché del tutto confermati. Ma lo scenario di un mondo globale bussa immancabilmente alla porta, e dobbiamo tenerne conto, non solo per descrivere il nostro profilo d’uso di Bitcoin, ma anche una sua possibile ingegnerizzazione deliberata.

La Ragione Stock e Quella Flusso

In questa, come in molte altre interviste e interventi, il priore del massimalismo Bitcoin Giacomo Zucco spiega, con estrema chiarezza, le caratteristiche peculiari del protocollo di Satoshi Nakamoto e — a vario titolo e con una gamma altrettanto ampia di intensità visionaria (cosa, intendiamoci, del tutto lecita) — descrive i possibili scenari futuri della sua “adozione” come moneta.

Ebbene, come spero sia ovvio, io non intendo minimamente offuscare o scalfire la meritata notorietà di questo personaggio, che ritengo senza tanti mezzi termini uno dei più grandi esperti in materia di Bitcoin. Banalmente, Zucco parla di questa (chiamiamola) rivoluzione finanziaria e infotelematica a ragion veduta, citando dettagli tecnici e traducendoli in affermazioni di per sé verissime.

Il problema sorge a mio avviso, e posso facilmente dimostrarlo, quando si passa da una teoria del tutto centrata sul mezzo preso in esame a una sua applicazione pratica, ovvero inserita e immersa nel mondo reale. Da questo punto di vista, Bitcoin è chiaramente uno strumento che è stato gettato nel pieno della finanza classica, e indipendentemente dalle sue oggettive dimostrazioni valoriali — che non per niente lo hanno ribattezzato “oro digitale” — deve necessariamente essere considerato all’interno di un quadro sia oggettivo che interpretativo ben più ampio, ibrido e sistemico.

In un mio recente post ho per esempio descritto molto bene, in forma di confutazione ad altro testimonial piuttosto noto (che parlava, peraltro, pure lui a ragion veduta, ma estendeva altrove il suo ragionamento con argomentazioni che non consideravano le differenze strutturali tra primo e terzo mondo), quanto la situazione occidentale non possa essere riassunta esaustivamente nel comportamento finanziario di un singolo individuo, più o meno dotato di una strumentazione aggiuntiva “di difesa” come potrebbe essere appunto Bitcoin.

La questione si concentra su sfumature che, nel discorso di Zucco, come di molti altri commentatori, sfuggono ai più e bypassano passaggi importanti. Facciamo un esempio concreto, riferendoci alle definizioni che affiorano da questa intervista…

Zucco dice (sintetizzo) che Bitcoin è una moneta digitale decentralizzata che permette di salvare il frutto del nostro lavoro mettendolo al riparo da pignoramenti ed effetti dell’inflazione.

Ha ragione? Certo che ha ragione. Bitcoin è un protocollo assolutamente decentralizzato che mima il comportamento di un asset prodotto in regime di scarsità stretta, e dunque, se opportunamente stivato in wallet crittografici ad esclusivo appannaggio dell’utente, costituisce un fondo protetto nel medio-lungo periodo dagli effetti inflativi tipici della moneta fiat, nonché impossibile da pignorare.

Ma attenzione. A cosa si riferisce Zucco? Essendo che fenomenologicamente noi appartentiamo a un mondo dove l’economia a base fiat domina non solo gli scambi, ma anche l’industria (ergo la produzione), i servizi, le istituzioni, l’erogazione di stipendi e il calcolo dei medesimi, le pensioni, i bilanci delle amministrazioni pubbliche e in generale il sistema bancario, i soli Bitcoin che noi possiamo possedere li dobbiamo comprare. Questo significa che la nostra dotazione flusso periodica — supponiamo mensile, per semplicità, ovvero il nostro stipendio — la possiamo solamente scorporare in due parti: da un lato quello che consumiamo necessariamente nel brevissimo o breve periodo, che necessariamente dobbiamo spendere direttamente in valuta locale, visto che non abbiamo né la possibilità né la convenienza di cambio (fees di servizio) a cambiare due volte dollari o euro in satoshi per poi ricomprare merce e servizi in dollari o euro; dall’altro lato quello che accantoniamo come risparmio, e che molto argutamente possiamo conservare in satoshi dentro una locazione crittografica controllata da un comune wallet non custodial.

Che cosa, dunque, possiamo effettivamente proteggere? La risposta è semplice: possiamo proteggere lo stock residuale di valore che più o meno periodicamente possiamo accantonare dopo aver pagato le spese spicciole.

Questo significa che: (1) se non riusciamo a risparmiare nulla, in quanto viviamo con uno stipendio che copre appena le spese correnti, non possiamo neppure pensare di utilizzare Bitcoin come riserva di valore; (2) se, più probabilmente, riusciamo ad allestire un ragionevole PAC mensile (piano di accumulo costante), la sola protezione che possiamo ottenere è quella relativa ai nostri risparmi convertiti in satoshi.

Ma che succederebbe se il legislatore, il governo, la CIA, il fisco, un privato che ci incastra con un pignoramento verso terzi basato su pezze giustificative ritenute valide da un giudice prima ancora che ci si possa difendere, e via discorrendo, arrivassero a rendere indisponibile il collettore dinamico primario della nostra sussistenza, ossia il conto corrente dove ci viene versato lo stipendio?

Economicamente parlando, credo che la differenza salti ora all’occhio. Zucco dice cose vere, verissime, ma ragiona confinando la sua analisi su un piano statico. La realtà fenomenologica, invece, non è solo un’istantanea, ma un film, ossia uno scenario dove le grandezze dello stato patrimoniale “stock” (cioè statiche) convivono con quelle del conto economico “flusso” (cioè dinamiche). In altre e più semplici parole, la sola cosa che io posso proteggere è quello stock di satoshi che sono riuscito ad accumulare fino al momento in cui qualcuno che ha il potere di farlo intacca la fonte primaria dinamica della mia ricchezza, ovvero (peggio) il contenitore che la movimenta. A quel punto cosa posso fare? Spendere i miei satoshi? Certo che sì. Ma in vista di che cosa? Di una loro consumazione fino a completo esaurimento? Ok, e poi? Che faccio, con un conto corrente bloccato e un wallet a zero BTC? Fatico a credere che l’utente medio possa aver accumulato cifre così elevate da poter permettere di vivere di rendita per sempre. Da questo punto di vista, credo che tutti ricordino la celebre frase di quell’economista che si riferiva — certo, un tantino egoisticamente — al “lungo termine” come a un’orizzonte poco interessante…

L’idea quindi che Bitcoin nella nostra economia occidentale — che è un complesso di meccanismi finanziari, monetari, industriali, produttivi, legali, istituzionali, nonché connessi ad abitudini reiterate — possa fungere da salvagente multiuso e onnicomprensivo, tale da difenderci “a spettro totale” da qualsiasi ingerenza, è come minimo parziale.

Certo, direte voi. Ma avere uno stock di valore sicuro e protetto dall’inflazione è buona cosa, anche se limitata a quello stock. E avete pienamente ragione. Peraltro non è assolutamente detto che qualcuno voglia bloccarvi i conti correnti, quindi la scelta routinaria di “risparmiare in satoshi” è e rimane una delle più giuste e lungimiranti.

Ma ciò che vorrei rimarcare è ben altro. La potenza di Bitcoin nelle nostre economie occidentali è confinata alla sua funzione (innegabile) di “riserva di valore”, e solo in (minima) parte si estende alla funzione monetaria di “mezzo di scambio” effettivo. Questa dinamica è determinata dal fatto che il funzionamento di Bitcoin “qui da noi” non può essere scorporato dal meccanismo a monte, e a base fiat money, che interviene naturalmente nel — mi si passi la terminologia — cryptocash-in di acquisto, più che in quello di cryptocash-out.

Una reale emancipazione dal sistema bancario e dal regime della fiat money potrebbe avvenire solo riuscendo contemporaneamente a farsi pagare sempre e solo in BTC, e a pagare tutto quello di cui abbiamo bisogno altrettanto in BTC. Ora, per quanto ci sia sempre il leoncino da tastiera che risponde indietro senza ragionare, sfido chiunque a dimostrarmi di riuscire a farlo. Sto parlando ovviamente di pagamenti nativi in BTC; espedienti tipo il cambio automatico attraverso servizi di exchange su conto corrente — come spero sia ovvio — non valgono, in quanto appunto si avvalgono di uno strumento intermedio che, una volta bloccato, compromette l’intero sistema.

Questa discrepanza altro non è che una conferma di quanto già descrivevo nel post di cui sopra, evidenziando la radicale differenza tra le nostre economie e quelle terzomondiste. Se in Nigeria rubo un bancale di telefonini GSM (mi si perdoni l’esempio truce, ma è chiaro che in un paese del genere il fare di necessità virtù dovrebbe essere considerata una prassi come minimo meritevole di attenuanti, per non dire di piena assoluzione) e li rivendo facendomi pagare direttamente in BTC, allora sì che sto implementando quella che potrebbe essere a buon titolo considerata un’attività microimprenditoriale a base Bitcoin. Ma qui in Occidente, furto a parte, chi mai riuscirebbe ad essere pagato in preziosi BTC accumulati col sudore della fronte (e tirando la cinghia) per un telefonino vetusto?

La questione è quindi molto semplice. Bitcoin tutela i nostri risparmi, ma finché Bitcoin non sarà moneta a tutti gli effetti, c’è poco da fare: l’aquila statunitense e il suo dollaro ci domineranno ancora per molto.

L’Oriente e l’Occidente di Bitcoin: una Confutazione

In questa (peraltro molto bella e documentata) lezione presso il Politecnico di Torino tenuta da Rikki, nome “d’arte” di uno dei più noti commentatori in tema di Bitcoin nel rapporto ormai molto stretto con le economie dei paesi in via di sviluppo, si descrivono dinamiche molto precise e documentate, che illustrano certamente, e con eloquenza, un mondo molto diverso dal nostro.

Nel contempo, concentrandosi sulla materia dei cosiddetti “unbanked”, Rikki descrive tesi estremamente condivisibili – sia locali, che sul ruolo certamente “complice” delle economie avanzate – la cui portata incorre però in un grossolano errore quando si tratta di estendere le motivazioni circa l’uso del satoshi nelle NOSTRE economie occidentali.

In sostanza, l’errore sta in questo…

Come effettivamente accade, in Nigeria o in altre economie letteralmente devastate dall’inflazione e dalla corruzione politica, essere “unbanked”, o scontare comunque gli effetti economici di quanto detto, è una condizione comunque vissuta da individui che VORREBBERO essere “banked”, ma per una serie di ragioni contingenti non possono esserlo. Ecco dunque che Bitcoin diventa una salvezza, una necessità, ovvero, in altri termini, una scelta obbligata.

La questione della potenziale censura bancaria nelle economie e nei sistemi occidentali non è assolutamente una buona motivazione, in quanto, al contrario di ciò che accade nelle economie terzomondiste, noi VORREMMO essere “unbanked”, ma non possiamo permetterci il LUSSO di esserlo, ovvero di NON essere “banked”, in quanto la struttura stessa della nostra economia individua una meccanica d’uso di Bitcoin che è solo una: quella del piano d’acquisto costante, ossia di una “messa al riparo” dei nostri risparmi attraverso il cambio in satoshi di quel residuo di flusso periodico di intoiti RIGOROSAMENTE IN MONETA FIAT che chiamiamo stipendio, o reddito, o guadagno.

In altre parole, c’è poco da fare: senza la fiat money, qui da noi non esisterebbe neppure un solo “utente” Bitcoin (o bitcoiner), visto che i satoshi, da noi, possono essere al 99% solo COMPRATI e (al limite) spesi dopo una corposa rivalutazione nel medio-lungo termine.

Detta in altri termini, da noi non esiste un’economia “in” Bitcoin, visto che i Bitcoin li compriamo – e (statistiche alla mano) per un buon 85% – li teniamo assolutamente fermi nei nostri wallet, preferendo come ovvio spendere (gettare, bruciare) la fiat money per le spese correnti e il corrente accantonamento spicciolo per gli esborsi fissi (manutenzioni, mutui, rate varie, bollette, utenze mobili, etc…).

La “protezione” a cui allude Rikki può essere al limite riferita a un fondo in BTC di riserva, ma quel fondo è alimentato comunque da un meccanismo che nove su dieci transita attraverso un conto corrente, o carta di debito-credito: tutti presidi centralizzati che ANCHE VOLENDO NON POSSIAMO NON AVERE A DISPOSIZIONE. E la mano del censore li può colpire senza problemi.

Riassumendo, la nostra economia vive una sorta di sindrome della parzialità. Bitcoin molto difficilmente può essere guadagnato nativamente, in quanto il generico utente (esercente) di tale accettazione da un lato non ha prodotti appetibili che possano scontrarsi col mercati vigente (contrariamente ai mercati terzomondisti, dove anche un cellulare GSM usato può essere un prodotto appetibile), e dall’altro lato non può contare su un target di potenziali acquirenti che siano (1) esperti di Bitcoin, (2) dotati di Bitcoin e (3) disposti a spendere Bitcoin. La pazialità è quella che, di fatto, confina Bitcoin nell’alveo della “riserva di valore”, e in larghissima misura lo esclude da quello del “mezzo di scambio”, necessario per la definizione di una vera e propria moneta.

La sintesi appare dunque semplicissima: da noi essere unbanked è un processo antieconomico, oltre che sostanzialmente impossibile, in quanto non esiste un’economia che renda fattibile e conveniente l’essere pagati in BTC, prima ancora che lo spendere BTC.